Eravamo io, Arturo Brachetti e un contrabassista.

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Alla fine è successo.
Io stessa sono incredibilmente colpita dalla faccenda.
Fatto sta che è successo.
Sono le 7:05 e io sono in orario.
Cioè, no, un attimo. Ora vi spiego una cosa.
Io in realtà nella mia mente sono molto ordinata e precisa. Nella mia mente sono sempre stata abilissima a calcolare i tempi minimi o quanto meno giusti per arrivare senza problemi dove devo arrivare. Il mio grande problema poi è il passaggio dalla mente ai fatti.
Insomma, ho calcolato che per prendere il treno senza sfiatarmi o ansiarmi (ansiare è e sarà il verbo più usato in questo blog, alla fine dell’anno gli consegnerò una targa con tanto di scoppio di coriandoli, champagne e bandierine presidenziali), dovrei uscire di casa al massimo alle 7:05. Sia chiaro, questo calcolo non concede imprevisti. Vuol dire che secondo questo calcolo non posso perdere neanche un secondo, il lasso di tempo è quello preciso preciso per uscire di casa e arrivare al treno senza che possa esserci niente che mi faccia indugiare, nemmeno una cacchetta di cane da scansare sul marciapiede lungo il tragitto.
Quindi, già non è un calcolo che lasci spazio a manovre temporali di alcun genere. Se in più mi macchio la maglia lavandomi i denti, per esempio, è un casino. A trent’anni suonati e risuonati non ho ancora imparato a lavarmi i denti senza sbrodolarmi, sì. Quindi ho imparato che mi lavo i denti prima di mettermi la maglia. Insieme a tutta una serie di altri movimenti che sto tutt’ora imparando a misurare con precisione sciamanica.
Per esempio. Sveglia, bagno subito. Té, bagno ancora. Zaino, bagno di nuovo. Faccio tutte le mie cosine senza portarmi dietro il telefono e quindi senza controllare l’ora.
La cosa che mi piace dell’alzarmi presto, se proprio devo dirne una (e fatico parecchio a scovarla) è il silenzio. Sarà banale, ma vi giuro che c’è un silenzio in casa mia bellissimo. Riesco a sentire i miei pensieri e i miei movimenti, tanto c’è silenzio. Io, che ho la femminilità di un cigno ferito e la grazia dell’elefante che si dondolava sopra il filo di una ragnatela, mi muovo in quel silenzio (o almeno, così a me pare) come sul morbido, senza fare rumore. E questo mi permette di sentire tutti i rumori altri, quelli fuori da me, quelli oltre le mura di casa mia.
Alle sette meno dieci, per esempio, il comodino dell’inquilino del piano di sopra comincia a vibrare. Perché sul suo telefono suona una sveglia, immagino. In pieno giorno, col casino delle vite e della città, non lo sentirei nemmeno.
Di mattina, invece, non solo lo sento, ma ho ormai imparato a farne un punto fisso sulla mia tabella di marcia. Tendenzialmente, quando sento quel rumore, significa che ho ancora dieci minuti per stare in bagno e poi altri cinque per mettermi i jeans, una maglia, le scarpe e uscire. Ecco, di solito quelli critici sono sempre questi ultimi cinque minuti, durante i quali sembro Arturo Brachetti che si trasforma, mi spoglio e mi rivesto alla velocità della luce senza mai riuscire a trovare nel mio armadio qualcosa che mi soddisfi. La scelta alla fine ricade sempre sulla cosa che ho addosso nell’istante in cui mi rendo conto che è ormai davvero troppo tardi per provarne ancora un’altra. E quindi prendo ed esco.
A tutto questo aggiungiamo sempre l’ansia da il ragazzo del treno sarà sempre molto bello e io sto uscendo come una scappata di casa. Tieniamolo sempre come punto fermo.
Il che mi fa tornare all’inizio del post. Sono le 7:05 e io misteriosamente sono in orario, diciamo. Per stare serena proprio sarebbero dovute essere le 7:00, ma accontentiamoci, no?
Arrivo al binario calma e rilassata. Mi assicuro di posizionarmi in corrispondenza del display che segnala il numero della mia carrozza. E poi mi guardo intorno.
Come se qualcuno usasse uno specchietto per far riflettere una luce, lo vedo qualche pendolare più in là, il ragazzo del treno. Sempre con le cuffie ad ascoltare non so che musica. Torno con lo sguardo al binario. E con la coda dell’occhio mi accorgo che si è voltato a guardarmi. Anche io mi volto di nuovo verso di lui. Lui scatta e guarda da un’altra parte.
Quando qualche minuto dopo arriva il treno stiamo ancora facendo questo gioco. Ci guardiamo mentre l’altro non guarda. Poi, ancora una volta appena prima di salire. Lui è alla 8, io alla 6.
Quando arrivo al mio posto, il sedile è occupato da un’enorme custodia. Credo ci sia dentro un contrabasso.
Di fronte c’è un ragazzo. Gli chiedo se sia suo. Lui alza gli occhi dal telefono e mi chiede:
– Sì, ti dà fastidio?
– No, per carità, fastidio no. È che quello sarebbe il mio posto.
Mi guarda come a dire “cosa vuoi che faccia?”.
Sono un po’ confusa. Non è un po’ un cliché un musicista sul treno? Quanti altri cliché incontrerò nei prossimi mesi?
Il posto accanto al contrabasso è vuoto. Gli chiedo se almeno posso sedermi lì.
– Sì, certo.
– Però se arriva uno con la prenotazione devo spostarmi eh.
Non mi risponde. Digita un numero sul telefono.
– Papà, sono Michele, volevo farti gli auguri di buon compleanno di prima mattina.
Sorride.
– Il preludio era molto difficile, non sono stato molto intonato. Dai, và, come ti senti questa mattina? Tra l’altro c’è stato un equivoco, l’albergo l’ho dovuto pagare io alla fine. Ma non potevo fare altrimenti.
Silenzio.
– Io adesso come arrivo vado a provare, caso mai stasera chiamo di nuovo.
E attacca.
Insomma, il cliché del musicista che viaggia in treno me lo aspettavo un po’ più maledetto, bello e dannato, quelle cose lì.
Sono un po’ delusa.
Col pensiero corro a tra un mese, circa, quando anche io farò la stessa telefonata per fare gli auguri di buon compleanno a mio padre.
Ché qui parla una pendolare, sì, ma anche una fuori sede.
Mi metto le cuffie e parte Il bandito e il campione di De Gregori.
Continuo a pensare che la storia del musicista sul treno sarebbe dovuta essere più avventurosa. E invece sono qui che non ci penso già più mentre mi domando cosa stia ascoltando il ragazzo del treno.

 

Mission Impossible

metro

Dai che stamattina sono figa, talmente figa che sarà lui a venire da me. Fermo al binario, mi vedrà arrivare da lontano, nello spostamento d’aria sentirà il mio irresistibile profumo, Eau De Erboristerie, 10€ a boccetta, i miei capelli luminosi faranno shiash mentre gli passerò vicino e il mio rossetto tonalità ibiscus, così dice sulla confezione, lo attirerà senza che lui possa fare altro che cadere ai miei piedi, seguirmi fino alla mia carrozza e attaccare bottone con me. Che però resterò impassibile e me la tirerò un casino. Poi, solo dopo averlo fatto genuflettere alla mia figaggine da femme fatale, gli concederò di offrirmi un caffè. Dai, dai che sono figa, dai che stamattina andrà esattamente così. Dai.
Questa sono io.
Io che mi motivo.
Io che corro verso la fermata della metro alle ore 7:05 del mattino.
Cioè, in realtà sono le 7:15. Sarebbero dovute essere le 7:05 e con ogni probabilità lo sarebbero state. Sì. In un’altra vita. In un altro universo, uno parallelo nel quale io non solo non sono perennemente in ritardo e quindi di corsa, ma sono addirittura puntuale, talvolta perfino in anticipo, ma soprattutto molto molto figa, magra e senza ansie. Il problema è che vivo in questo universo. E in questo universo io non sono figa, non sono magra e non sono puntuale. Ma manco per il cazzo. Quindi sono qui per strada che copro a passo sveltissimo la distanza tra casa mia e la stazione della metro. Sono certa che se mi cronometrassi di sicuro batterei qualche record che Bolt levati proprio.
Tra me e quella metro, tra lei e l’aria gelida che mi entra in gola, c’è un semaforo eterno. Ecco, corro sì per prendere la metro, ma prima ancora corro sperando di svoltare l’angolo e scoprire che quel semaforo sia verde. Se lo becco rosso, perdo la metro per un minuto, ne devo aspettare altri lunghissimi due e fare sei fermate pregando di arrivare in stazione in tempo per il treno. Fino a questo momento ce l’ho sempre fatta. Trafelata e ansiata, ma ce l’ho fatta ogni mattina.
Arrivo al binario giusto un paio di minuti prima del mio treno. E lui lo trovo sempre già lì, tutti i giorni, il ragazzo del treno, dico, il mio pensiero felice. Sia all’andata che al ritorno. Ed è bellissimo.
La missione per i prossimi quattro mesi è una soltanto: prendere coraggio e salutarlo.